La traduzione italiana di Giovanni Battista Castrodardo pubblicata da Andrea Arrivabene (1547)

Maurizio Busca

La prima traduzione completa del Corano che ci sia pervenuta in una lingua vernacolare è stata stampata a Venezia nel 1547 in un libro intitolato L’Alcorano di Macometto, nelqual si contiene la dottrina, la vita, i costumi, et le leggi sue. Tradotto nuovamente dall’Arabo in lingua Italiana. Contrariamente a quanto annunciato nel titolo, questa traduzione italiana non si fonda sul testo arabo ma sulla versione latina di Roberto di Ketton, peraltro sensibilmente abbreviata. Essa merita tuttavia di essere conosciuta per ragioni di ordine documentario e storico-culturale: ha infatti largamente contribuito alla circolazione del sapere sull’islam nell’Europa della prima Modernità.

Giovanni Battista Castrodardo, autore dell’Alcorano

L’Alcorano è stato pubblicato in forma anonima dall’editore veneziano Andrea Arrivabene. Nel corso degli ultimi secoli sono state formulate diverse ipotesi di attribuzione, e soltanto negli anni 2000 lo studio delle esili tracce autobiografiche disperse nel testo ha permesso di risalire all’identità dell’autore. L’Alcorano deve ormai essere attribuito a Giovanni Battista Castrodardo, la cui vita, benché relativamente poco documentata, è possibile ripercorrere almeno nelle grandi linee.

Giovanni Battista Castrodardo nasce intorno al 1517. Nipote dell’umanista Pietro Marenio Aleandro, appartiene a una famiglia borghese di Belluno, città all’epoca nel territorio della Repubblica di Venezia. L’erudito Giorgio Piloni, suo contemporaneo, afferma che Castrodardo avrebbe compiuto studi letterari e giuridici, ma non fa menzione di un’eventuale formazione in lingue orientali. Castrodardo è orientato già in giovane età verso la carriera ecclesiastica: integra il capitolo della cattedrale di Belluno nel 1534, è ordinato sacerdote nel 1539 e lascia il capitolo soltanto nel 1584, tre o quattro anni prima della sua morte, senza aver mai ricoperto cariche rilevanti. Questo percorso apparentemente lineare conosce tuttavia una cesura importante fra il 1543 e il 1548, periodo durante il quale Castrodardo lascia Belluno e sembra tentare una carriera nel mondo delle lettere collaborando con almeno due editori veneziani. Fa il suo debutto nel 1544 traducendo per l’editore Michele Tramezzino i tre libri De varia historia di Nicolò Leonico Tomeo, opera erudita sul mondo antico che conosceva all’epoca un successo considerevole. Nella prefazione alla sua traduzione Castrodardo annuncia di essere impegnato in un secondo progetto, un commento alla Commedia di Dante la cui redazione, stando a quanto si legge in una nota marginale dell’Alcorano, è ormai ad uno stadio avanzato e forse è completata nel 1547. Questo commento, rimasto inedito, non ci è tuttavia pervenuto. Fra il 1544 e il 1547 Castrodardo si dedica anche al cantiere dell’Alcorano, probabilmente su incarico dell’editore Andrea Arrivabene; con la pubblicazione di questo lavoro i suoi rapporti con il mondo dell’editoria veneziana sembrano però arrivare alla fine. Nel 1548 Castrodardo ritorna infatti a Belluno, e se nel corso dei decenni seguenti compone dei versi e un’opera storiografica sui vescovi della sua città, questi testi resteranno manoscritti e sono oggi noti soltanto attraverso frammenti e testimonianze indirette. L’Alcorano è quindi l’ultima delle sue opere ad esserci giunta integralmente.

Da questa panoramica della vita di Giovanni Battista Castrodardo, è legittimamente possibile ricavare una certa perplessità: pur avendo tradotto il Corano, Castrodardo non sembra infatti aver mai studiato né l’arabo né altre lingue orientali, e nulla lascia pensare che abbia mai coltivato interessi particolari per l’Islam o più in generale per l’Oriente. L’Alcorano appare perciò come un oggetto eccentrico sia rispetto alla sua produzione letteraria sia rispetto al suo orizzonte culturale, e altrettanto singolare appare la scelta dell’editore Arrivabene di non rivolgersi a un orientalista per far realizzare una traduzione del Corano. Per comprendere le ragioni che hanno potuto condurre queste due figure ad associarsi in un tale progetto, è necessario ricostruire il contesto in cui l’Alcorano vede la luce, per considerarne poi gli aspetti formali, la struttura e il contenuto.

Il contesto di pubblicazione dell’Alcorano

Il secondo quarto del XVI secolo è un periodo turbolento su entrambe le sponde del Mediterraneo. L’Europa, scossa dalla diffusione della Riforma a partire dalla fine degli anni ’10, è dilaniata dagli scontri fra cattolici e protestanti e dalle guerre d’Italia, che oppongono per decenni la Francia al Sacro Romano Impero. Quanto alle regioni comprese fra il Mediterraneo orientale e il Golfo Persico, i loro fragili equilibri interni sono infranti dalle politiche aggressive della Persia e dell’Impero ottomano. Le mire espansionistiche ottomane finiscono del resto per rivolgersi direttamente verso l’Europa: dopo aver completato nel 1517 la conquista dell’Egitto mamelucco, il sultano lancia una serie di campagne militari contro i Balcani e l’Ungheria, arrivando a minacciare la città di Vienna nel 1529. Due delle conseguenze di queste operazioni nell’Occidente cristiano si rivelano determinanti per la pubblicazione dell’Alcorano. La prima è di natura politica e militare: si tratta dell’alleanza in funzione anti-asburgica del re di Francia Francesco I con il sultano turco Solimano I, un’alleanza stretta nel 1536 e mantenuta grazie a sforzi diplomatici intensi e prolungati fra i quali si segnala l’ambasciata (1547-1553) di Gabriel de Luetz, signore d’Aramon, che sarà il dedicatario dell’Alcorano. La seconda è di natura culturale e letteraria, e consiste nell’interesse crescente, da parte dei lettori europei, per una potenza tanto minacciosa quanto affascinante ma ancora relativamente poco nota: fin dagli anni ’30-’40 cominciano a circolare in tutta Europa numerose opere in latino e in volgare dedicate all’Impero ottomano e ai suoi abitanti, ai loro costumi, alla loro lingua, alle loro istituzioni e alla loro religione.

È in questo contesto che opera Andrea Arrivabene, editore, autore e traduttore veneziano attivo dal 1534 al 1570. Vicino agli ambienti eterodossi dell’Italia del nord-est, legato a personaggi accusati di eresia riformata, impegnato nella diffusione di opere sospette o vietate, Arrivabene è più volte indagato dall’Inquisizione nel corso della sua carriera. Nei primi anni di esercizio, il suo catalogo presenta una grande varietà interna, e accoglie opere redatte principalmente in latino sui soggetti più disparati: medicina, scienza, religione, filosofia, storia, poesia, teatro… Verso la fine degli anni ’30, tuttavia, la sua strategia commerciale si precisa, e si moltiplicano le pubblicazioni in italiano dedicate alla religione cristiana, alla storia antica e a quella contemporanea: accanto alle opere edificanti di Efrem, Agostino, Savonarola e Comalada, troviamo Senofonte e vari storici della tarda Antichità, il Boccaccio storico e mitografo, ma anche la vita del duca di Milano Francesco Sforza di Giovanni Simonetta, le Istorie fiorentine di Machiavelli e la storia della guerra fra Venezia e la Lega di Cambrai di Andrea Mocenigo. Arrivabene si rivolge dunque a un pubblico non erudito ma istruito e curioso, interessato sia alle questioni religiose che alla storia antica e recente, desideroso di documentarsi grazie a opere di divulgazione in volgare. È nell’ambito di questa attività editoriale che si inserisce il progetto dell’Alcorano.

Se i dettagli del processo di concezione e realizzazione dell’Alcorano sono ignoti, è possibile rilevare alcune delle circostanze che hanno verosimilmente contribuito alla genesi e all’elaborazione del volume. All’inizio degli anni ’40, il Corano è al centro di pubblicazioni destinate a una larga diffusione: nel 1543 Theodor Bibliander stampa la sua monumentale edizione del corpus di Cluny, composto intorno alla metà del XII secolo, che include la traduzione latina del Corano di Roberto di Ketton; nello stesso anno, Johann Albrecht Widmanstetter pubblica la sua Mahometis Abdallae filii theologia dialogo explicata, che contiene l’edizione commentata di un’epitome del Corano e di uno dei testi del corpus di Cluny, la Doctrina Machumet. In maniera più generale, è possibile osservare come verso la metà degli anni ’40 il mercato librario si arricchisca di numerose novità sui Turchi e sull’islam; ma, che si tratti di pamphlet militanti o di summe erudite, tali opere sono spesso disponibili soltanto in latino. Con l’Alcorano, Arrivabene intende quindi occupare una nicchia vacante nell’editoria italiana ed europea, realizzando un compendio in lingua volgare sulla religione dei Turchi contenente per di più una primizia, il Corano « Tradotto nuovamente dall’Arabo ». Con questa operazione, arricchisce inoltre il suo repertorio di opere sulla storia recente di Venezia e soprattutto degli Stati con cui la Serenissima intrattiene i rapporti più complessi: dopo la repubblica di Firenze (Machiavelli, Historie, 1539-1540), il ducato di Milano (Simonetta, Historie, 1544) e le potenze riunite nella Lega di Cambrai (Mocenigo, La guerra di Cambrai, 1544), tocca all’Impero ottomano (L’Alcorano di Macometto, 1547).

Ricollocata in questa prospettiva, la scelta di affidare la traduzione del Corano non già a un orientalista ma a un chierico esperto di lingua latina appare certamente meno incongruo, poiché il progetto stesso dell’Alcorano non sembra rispondere in primo luogo ad ambizioni filologiche, esegetiche, teologiche o apologetiche. La dedica di questo libro all’ambasciatore francese Gabriel de Luetz in occasione della sua breve tappa a Venezia (febbraio 1547) durante il suo viaggio verso Istanbul, peraltro, contribuisce a testimoniare la portata ideologica e politica di questa impresa editoriale. 

L’Alcorano di Macometto: aspetti formali e organizzazione della materia

I clienti abituali della libreria di Arrivabene indovinano probabilmente alla prima occhiata che l’Alcorano, stampato in caratteri corsivi, non è considerato dal suo editore come un’opera di argomento eminentemente religioso: in questo caso avrebbe impiegato caratteri tondi. Nella dedica, Arrivabene sottolinea che lo ritiene un libro di storia, disciplina preziosa per tutti coloro che sono impegnati nel governo e nell’amministrazione di uno Stato. Ora, poiché i rapporti fra la cristianità e la « natione Macomettana » sono particolarmente burrascosi, scrive Arrivabene, i Principi cristiani sono tenuti a conoscere i fondamenti di tale civiltà al fine di condursi opportunamente nelle loro relazioni con essa, in tempo di pace come in tempo di guerra. Tali fondamenti sono illustrati nell’Alcorano, un’opera in cui « sono ampiamente descritte la religione, le leggi, i costumi, e quasi tutto il modo del vivere di quella gente ». Si intuisce che per Arrivabene la categoria di « storia » ingloba, per non dire privilegia, ciò che noi chiameremmo etnografia, storia delle religioni e storia delle istituzioni.

L’Alcorano si compone di due sezioni di lunghezza ineguale. La prima costituisce una sorta di lunga introduzione etnografica, la cui materia è attinta a diverse opere di pubblicazione recente: l’Opera chiamata confusione della setta machumetana di Juan Andrés (1537); il De Turcarum ritu et caerimoniis di Bartoloměj Georgevič (1544); I costumi et i modi particolari de la vita de Turchi di Luigi Bassano (1545); l’Historia […] dell’origine di Vinegia di Bernardo Giustinian (1545). Da tali fonti, l’autore ricava un primo capitolo dedicato alla vita di Maometto e altri quattro capitoli sui costumi dei Turchi e sui loro rapporti con i cristiani. Nelle copie messe in commercio dopo il 1548, tale sezione si arricchisce di due capitoli estratti dal Trattato de costumi et vita de Turchi di Giovanni Antonio Menavino e dalla Prophetia de maometani, et altre cose turchesche di Bartoloměj Georgevič, entrambi pubblicati nel 1548.

Questa introduzione è seguita dalla sezione principale del volume, suddivisa in tre libri, che riunisce la traduzione abbreviata di tre testi presenti nel corpus di Cluny (Primo libro) e quella del Corano (Secondo e Terzo libro). Tale struttura ricalca, di fatto, quella della raccolta composta per iniziativa di Pietro il Venerabile quattro secoli prima, nella quale il testo coranico è associato a una serie di opuscoli che illustrano diversi aspetti della vita del profeta e dei suoi successori, oltre alla teologia, alle leggi e ai costumi religiosi musulmani. Il Primo libro dell’Alcorano, che intende esporre il modo in cui Maometto fondò il suo potere politico e la sua autorità religiosa, contiene un’epitome della Chronica mendosa et ridicula Sarracenorum, del De generatione Machumet et nutritura eius e della Doctrina Machumet. I due libri seguenti presentano invece « la legge de Sarracini impostagli da Macometto », cioè il Corano, diviso in due metà secondo la tradizione fissata nella ricezione europea dalla traduzione latina di Roberto de Ketton. La Fātiḥa, o sura d’apertura, è isolata dal resto del testo e non è numerata; Castrodardo sembra tradurla seguendo la seconda delle tre versioni latine fornite da Bibliander. A partire dalla sura ii, comincia la serie dei ventisei capitoli che compongono il Secondo libro, cioè le sure ii-xviii nella numerazione oggi in uso: la seconda sura è divisa in tre parti, così come la terza; la quarta in quattro, la quinta in due, la sesta in tre e la diciassettesima in due. Il Terzo libro è composto di novantasei capitoli, che corrispondono alle sure xix-cxiv. Ogni capitolo è introdotto da una formula identica, che corrisponde all’invocazione che apre la Fātiḥa: « In nome di Dio Misericordioso, e Pio ». Nella versione latina di Roberto de Ketton, tale formula appariva soltanto all’inizio delle sure della seconda metà del Corano.

La traduzione del Corano di Giovanni Battista Castrodardo

Benché l’editore Arrivabene affermi a più riprese nel frontespizio e nella dedica che il Corano è tradotto dal testo arabo, il traduttore Castrodardo non nasconde di aver lavorato sul testo latino; si leggeranno, a questo proposito, le sue glosse al primo versetto della sura cvii e alla conclusione del testo. E anche supponendo che abbia appreso dei rudimenti di arabo e che abbia avuto modo di scorrere il Corano in lingua originale, in una copia manoscritta o nell’edizione dei veneziani Paganino realizzata nel 1537-1538, è necessario riconoscere che la sua traduzione si fonda unicamente sulla versione latina di Roberto de Ketton.

Per realizzare il suo lavoro, Castrodardo si è certamente servito di uno o più manoscritti del corpus di Cluny e di un esemplare dell’edizione Bibliander del 1543, come confermato da una lunga nota marginale del Primo libro in cui si segnala l’esistenza di oscillazioni nelle grafie dei nomi arabi: grafie e nomi che Castrodardo si astiene dall’armonizzare poiché, così scrive, « [poco] importa, non essendo loro di nostra legge, a noi saperli ». In questa nota, il traduttore lascia intendere di aver avuto accesso a fonti manoscritte e a stampa. Diversi indizi lasciano supporre che il testo del Primo libro sia fondato sulla lezione di un manoscritto; almeno a partire dalla sura iv e fino alla fine dell’opera, invece, il traduttore si è servito essenzialmente del testo fornito da Bibliander (ma in alcuni casi due diverse fonti sono convocate nel trattamento di un solo luogo testuale). La maggior parte delle circa ottocento note inserite a margine per fornire dei riferimenti tematici ai lettori, per chiarire dei punti oscuri o per commentare dei passi, è tratta dall’edizione di Bibliander. Una quarantina di esse proviene dalla tradizione manoscritta in maniera diretta o indiretta, tramite le annotazioni che seguono il testo coranico nell’edizione di Bibliander. Una sessantina è tratta dall’opera citata di Widmanstetter: queste glosse, nutrite di nozioni di cabala, abbondano nei margini del Primo libro; sono meno numerose nei margini del Secondo libro e appaiono ancora più raramente nel Terzo libro. Circa novanta note sono state redatte da Castrodardo stesso o sono state tratte da fonti diverse da quelle qui menzionate. Infine, in una sessantina di casi, Castrodardo ha sensibilmente modificato o ampliato le note che ha tradotto da una fonte principale. Talvolta il rapporto fra testo e note è problematico: il sistema di rinvii a margine adottato nel capitolo sulla Dottrina di Macometto (Primo libro) è ampiamente errato e impedisce di reperire le corrispondenze fra testo e note; inoltre, nel Terzo libro, le note al versetto 15 della sura xxix e al versetto 5 della sura lxx, tratte da Bibliander, commentano dei passi del Corano che non sono stati tradotti in italiano. Quest’ultimo punto rende particolarmente curiosa la nota al primo versetto della sura cvii, anch’essa tratta da Bibliander: Castrodardo vi segnala che il testo in quel punto è lacunoso, quando l’intera traduzione fornita nel suo Alcorano è lacunosa.

In effetti, se le centoquattordici sure del Corano sono state tutte tradotte, non lo sono state né integralmente né in maniera omogenea. La traduzione delle prime sure è completa, ad eccezione di alcuni segmenti puntualmente abbreviati o purgati di elementi verosimilmente percepiti come contraddittori, ridondanti o sconvenienti. A partire dalla sura iv, però, Castrodardo sembra spinto ad affrettare il passo. Elimina dapprima qualche parola o un versetto; sopprime poi sempre più frequentemente delle sezioni più ampie, spesso di carattere narrativo, che in alcuni casi superano il centinaio di versetti: circa centotrenta versetti sono espunti dalla sura vii, circa centocinquanta dalla sura xxvi. Con qualche eccezione, Castrodardo traduce estesamente le aperture e le conclusioni, abbreviando soprattutto le parti centrali. A mano a mano che avanza, e soprattutto a partire dalle sure l-lx, sembra isolare i nuclei testuali da tradurre seguendo le indicazioni fornite dalle note marginali di Bibliander e alcuni elementi interni al testo, come le apostrofi a Dio e ai credenti. È necessario precisare che Castrodardo non fornisce dei riassunti per le sezioni abbreviate: le amputazioni cui sottopone il testo finiscono così per dar luogo a una scrittura a tratti « impressionista », che procede per accumulo di frasi disgiunte. Nel testo italiano, un solo periodo può comporsi di elementi estrapolati da versetti distanti, come avviene, ad esempio, nel caso della frase formata dai versetti 12 e 32 della sura xxxvi. I centoni che risultano da tali operazioni possono allontanarsi sensibilmente dal senso del testo latino, come succede nei versetti 8-10 della sura lix. Nell’edizione di Bibliander si legge: [8] Pauperes in Dei nomine peregrinantes, et e domibus suis atque pecuniis exeuntes, ac Deo suoque prophetæ subuenientes, ueraces existunt. [9] Quorum primi credentes, diligentes ad se uenientes alios sibi præferunt, bonaque sua diuinitus sibi commissa cæteris tribuendo sibi subtrahunt, licet eos fames atque necessitas premant. [10] Horum autem successores Deum taliter exorant […]. Nella versione di Castrodardo, che traduce soltanto le parole che si sono indicate in corsivo, si legge: [8] I poveri peregrinando in nome di Dio son veraci, [10] i successori de tali orano Dio. Nel testo latino « i poveri » costituiscono il soggetto del versetto 8, « i primi credenti » quello del versetto 9 e « i successori [dei primi credenti] » quello del versetto 10; ma nel testo italiano, amputato del versetto 9, « i successori » evocati nel versetto 10 divengono successori dei poveri.

Senza contare gli errori di stampa, i luoghi in cui Castrodardo altera il senso del testo latino sono numerosi, e le cause di tali alterazioni sono diverse: incomprensione o lettura erronea di parole latine o semitiche; parafrasi improprie; omissione di segmenti indispensabili per il mantenimento del senso della frase; ambiguità dovute al calco della sintassi latina, soprattutto nella traduzione degli ablativi assoluti; interpretazione libera dei legami sintattici; confusione degli enunciatori; integrazione nel testo di elementi tratti dalle note marginali; probabili tentativi di emendare dei passi percepiti come corrotti. In alcuni casi, contrariamente alla sua prassi, il traduttore aggiunge degli elementi assenti nel testo latino: delle frasi intere sono inserite nella sura ii dopo i versetti 142, 177, 192 e 215, e nella sura xi dopo i versetti 121 e 123; nel versetto 72 della sura lv e nel versetto 33 della sura lxxviii, inoltre, la descrizione delle vergini che attendono i credenti in paradiso si arricchisce di nuovi dettagli.

Si osservi anche che Castrodardo non sembra ritornare sul lavoro già svolto per chiarire o correggere dei passi che, con l’avanzare della traduzione, si rivelano manifestamente ambigui o aberranti. Ciò emerge con chiarezza nei versetti della sura iii dedicati alle battaglie. Tali battaglie sono designate nella versione di Roberto di Ketton con la parola latina « lis »: Castrodardo ne traduce le prime occorrenze con le parole « contentione » (v. 111) e « lite » (v. 121); passa poi alla parola « battaglia » ai versetti 142 e 143, quando diviene evidente che si tratta di scontri armati, ma non corregge le frasi già tradotte. Il versetto 214 della sura ii offre un esempio ancora più notevole di tali negligenze. Il latino « quousque prophetæ uirisque bonis cum eo uindicem quærentibus intimatum est, uindictam propinquam esse » (« finché al profeta e agli uomini buoni che cercano con lui un vendicatore fu annunciato che la vendetta era vicina ») è reso con una traduzione priva di senso: « fino à che i Propheti, e con lui i buoni huomini cercando d’un vendicatore, fu annuntiato, che la vendetta era vicina ». Una lettura frettolosa del testo ha probabilmente indotto il traduttore a considerare i dativi « prophetæ uirisque… quærentibus » come un nominativo plurale e un ablativo assoluto.

Si può affermare in conclusione che le questioni che tengono maggiormente a cuore a Castrodardo sembrano essere quelle di ordine teologico e dottrinale, poiché i passaggi che le affrontano subiscono amputazioni relativamente poco frequenti; le sezioni di carattere narrativo o prescrittivo, invece, sono spesso soppresse. Si può inoltre supporre che, almeno in alcune parti, a questa traduzione sia mancata una revisione scrupolosa. Infine, si percepisce un certo disagio da parte del traduttore nel confrontarsi con un testo la cui retorica è estranea alla sua formazione e alla sua sensibilità. A fianco di un passo del Corano in cui si sottolinea la complessità inerente al testo (x, 39), Bibliander annotava sobriamente « Difficoltà di comprendere il Corano ». L’osservazione inserita da Castrodardo nel medesimo punto illustra la considerazione nella quale il canonico di Belluno tiene l’oggetto delle sue fatiche: « Non si intende l’Alcorano, perché da sé è confuso ».

La ricezione dell’Alcorano

Malgrado la messa all’Indice del Corano latino nel 1559 e delle sue versioni in lingua volgare nel 1564, e malgrado i giudizi severi formulati da numerosi orientalisti sulla traduzione di seconda mano pubblicata da Arrivabene, l’Alcorano ha conosciuto per lungo tempo una vasta circolazione in Italia e al di là delle Alpi. Tale diffusione è attestata dalla sopravvivenza di numerosi esemplari a stampa e di almeno una copia manoscritta, dalla lunga serie di testimonianze lasciate da lettori e possessori del volume, e soprattutto dalle appropriazioni e rielaborazioni di cui è stato oggetto. In effetti, la materia dell’Alcorano si ritrova copiata, riscritta o tradotta in varie opere databili generalmente ai secoli XVI-XVII. Ad essere oggetto di reimpiego sono talvolta delle sezioni dell’introduzione e del Primo libro: nel 1560, per esempio, Francesco Sansovino inserisce un’ampia porzione del Primo libro nella sua summa in italiano sui Turchi, l’Historia universale dell’origine et imperio de’ Turchi. In altri casi sono la versione italiana del Corano o l’intera opera ad essere riprese: nel 1616 Salomon Schweigger traduce in tedesco il contenuto dei tre libri dell’Alcorano; più volte stampata, questa versione tedesca servirà a sua volta di base alla traduzione olandese pubblicata in forma anonima nel 1641. Ancora nel XVII secolo l’Alcorano circolerà fra le comunità ebraiche d’Europa, presso le quali saranno realizzate due nuove traduzioni, rimaste manoscritte, in ebraico e in castigliano.

Per saperne di più

Il testo che vi presentiamo è stato inizialmente trascritto dalla società Datactivity. Nel 2020, è stato codificato in XML-TEI da Paul Gallardon e Maurizio Busca; quest’ultimo lo ha poi parallelizzato, editato e annotato. Per mettere a disposizione dei lettori di oggi un testo più agevolmente leggibile, si è proceduto alla dissimilazione delle u e delle v, allo sviluppo delle abbreviazioni, all’integrazione degli apostrofi nelle note marginali e alla correzione degli errori di stampa più correnti, come l’inversione di n e di u, la duplicazione o triplicazione impropria di lettere ecc. Si è tuttavia considerato opportuno conservare le ambiguità e le incoerenze del testo quando queste ultime hanno verosimilmente posto delle difficoltà già ai lettori e ai traduttori dei secoli scorsi: gli accenti tonici non sono stati regolarizzati, e le varianti grafiche dei nomi semitici non sono state armonizzate. I problemi testuali più complessi sono comunque segnalati e commentati in nota, così come le traduzioni aberranti.

La fonte di ogni nota marginale dell’Alcorano è stata indicata da una lettera inserita fra parentesi quadre alla fine di ogni nota: [B], [A], [M], [W], [C] o una combinazione di due o tre di queste cinque lettere. Una nota che termina con la sigla [B] è la traduzione di una nota marginale dell’edizione del corpus di Cluny pubblicata da Bibliander nel 1543. La sigla [A] indica le note che traducono una delle glosse attestate dalla tradizione manoscritta e raccolte da Bibliander nella sezione Annotationes eruditi cuiusdam della sua edizione, mentre la sigla [M] indica le glosse attestate dalla tradizione manoscritta che non sono state raccolte da Bibliander. La sigla [W] permette di identificare le note tratte dalla Mahometis Abdallae filii theologia dialogo explicata di Johann Albrecht Widmanstetter. La sigla [C] indica le note redatte da Castrodardo o provenienti da fonti diverse da quelle qui menzionate. Infine, quando una nota si fonda su diverse fonti, le cinque lettere possono essere associate: per esempio, una nota in cui vengono fuse una glossa di Bibliander e una di Widmanstetter sarà indicata dalla sigla [BW], mentre una glossa di Bibliander sensibilmente modificata o ampliata da Castrodardo sarà indicata dalla sigla [BC].

In questa presentazione, così come nelle note di commento a questa edizione digitale dell’Alcorano, il nome di Muḥammad appare spesso nella forma « Maometto » (in francese « Mahomet »). Si tratta di una scelta effettuata per marcare una distinzione fra il personaggio storico e le sue rappresentazioni elaborate nel corso del Medioevo e del XVI secolo. La forma « Muḥammad » è stata impiegata per evocare il personaggio storico, mentre la forma « Maometto » / « Mahomet » è stata utilizzata per rinviare alle sue rappresentazioni medievali e rinascimentali.

Nel corso degli ultimi decenni, l’Alcorano è stato studiato da storici e storici della letteratura. I lavori recenti più importanti sono quelli di Pier Mattia Tommasino, che ha scoperto l’identità dell’autore e ha condotto analisi minuziose sulla genesi e sulla circolazione dell’opera. Le informazioni qui fornite circa l’autore, il contesto di pubblicazione e la ricezione dell’Alcorano sono largamente debitrici delle sue ricerche. Per un primo approfondimento, si invita a consultare:


Adorni Braccesi (Simonetta), « Andrea Arrivabene », in Dizionario storico dell’Inquisizione, Pisa, Edizioni della Normale, 2010, vol. 1, p. 101-102.

Bobzin (Harmut), Der Koran im Zeitalter der Reformation: Studien zur Frühgeschichte der Arabistik und Islamkunde in Europa, Beyrouth / Stuttgart, Steiner, 1995.

Burman (Thomas), Reading the Qur’ān in Latin Christendom, 1140-1560, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 2009.

De la Cruz Palma (Óscar) e Ferrero Hernández (Cándida), « Robert of Ketton », in Christian-Muslim Relations. A Bibliographical History [CMR], Leiden, Brill, 2009-2020, vol. 3, 1050-1200, p. 508-519.

Gordon (Bruce), « Theodor Bibliander », in CMR, vol. 6, Western Europe (1500-1600), p. 675-685.

Hamilton (Alastair), The Forbidden Fruit: The Koran in Early Modern Europe, London, London Middle East Institute, 2008.

Tommasino (Pier Mattia), L’Alcorano di Macometto. Storia di un libro del Cinquecento europeo, Bologna, Il Mulino, 2013 [tradotto in inglese da Sylvia Notini: The Venetian Qur'an: a Renaissance Companion to Islam, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 2018].

Tommasino (Pier Mattia), « Giovanni Battista Castrodardo », in CMR, vol. 6, Western Europe (1500-1600), p. 506-511.


Questa nota introduttiva, redatta e pubblicata in un primo tempo in francese, è stata successivamente tradotta in italiano dal suo autore, Maurizio Busca.